Come e perché Sigmund Freud si rivolse a Mackenzie, alla fine della prima guerra mondiale.

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Martin Freud

 

Nel 1919, al termine della prima guerra mondiale, tra i militari austroungarici che ancora rimanevano in un campo di prigionia in Italia c’era Martin Freud, uno dei figli del fondatore della psicoanalisi, le cui notizie giungevano alla famiglia frammentariamente e con enormi ritardi. Martin era stato ferito e catturato alla battaglia di Vittorio Veneto (24 ottobre-4 novembre 1918) ed era stato inizialmente internato nell’ospedale militare Mezzacapo di Teramo, per esser trasferito dopo poche settimane alla caserma di San Benigno inferiore, a Genova, dove vigeva un regime molto duro.

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Ernest Jones

 

Nell’incertezza della sorte del figlio, a gennaio del 1919 Sigmund Freud scrisse a Ernest Jones, che in quei mesi di primo dopoguerra si muoveva in lungo e in largo per l’Europa, chiedendogli di darsi da fare per avere notizie ed eventualmente aiutare Martin. Senza troppa sollecitudine, Jones rispose all’appello del “maestro” e fu così che, trovandosi in Svizzera nel marzo del 1919, si mise in contatto con William Mackenzie, chiedendogli di darsi da fare per la liberazione di Martin Freud, o almeno per alleviargli le condizioni della prigionia. Mackenzie promise che avrebbe cercato di fare del suo meglio. Il 25 marzo dall’Hotel San Gottardo di Zurigo scrisse a Freud: «Sono molto felice che il dottor Mackenzie potrà fare e farà tutto il possibile per Martin. È una persona affascinante. Domani andrò a cena con lui e con sua moglie, per cui li conoscerò meglio. Posso fare diverse cose per loro, a Londra».

Non è immediatamente chiaro il motivo che spingeva Jones a ritenere che l’altro avrebbe potuto fare qualcosa per Martin Freud, ma un’informazione fornita da Talamonti nel ricordo scritto in occasione della morte di Mackenzie può forse metterci sulla strada. Secondo il giornalista durante la prima guerra mondiale William Mackenzie era stato «volontario alle dipendenze del nostro Comando, con l’incarico di organizzare l’assistenza psicologica alle truppe» e se questo è vero ciò potrebbe lasciar pensare a una certa familiarità con gli ambienti militari e l’assistenza ai prigionieri.

Ma ho scritto “se questo è vero” per due motivi. Il primo è che sembra legittimo nutrire qualche dubbio sull’asserita sollecitudine dei Comandi militari per il benessere dei soldati. Il secondo è che non si vede il motivo per cui, anche avendolo autorizzato, quel servizio dovesse essere affidato a un assicuratore. Molto più probabile è che William Mackenzie godesse di una fama generica di essere, come suo padre, un benefattore e persona sollecita alle sorti dei soldati.

Nel 1915, all’entrata in guerra dell’Italia, aveva concesso la sua abitazione al sindaco di Quarto per eventuali esigenze legate al conflitto. Nello stesso periodo, il padre aveva trasformato alcuni ambienti del palazzo della Meridiana – che era anche sede delle Assicurazioni per cui lavorava William – in ospedale per gli ufficiali feriti: anzi, come ha scritto qualcuno, in un “ospedaletto” che non aveva eguali in Italia. Il fatto è che Evan era «preoccupato soprattutto dal sentimento di attenuare il dolore con una visione di benessere (…) Le bianche camere, una decina con una quarantina di letti, i mobili bianchi, sobri nella loro eleganza, corredati di tutte le cose strettamente necessarie al malato e ospite, i vasi di cristallo con freschi fiori sul tavolo di mezzo o sul mobiletto intimo accanto al letto, corrispondono perfettamente allo scopo cui ha mirato il munifico signore e la sua amministrazione».

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Sigmund Freud con i figli nel 1916

Per tornare alla richiesta di Jones, non ho trovato tracce dirette di un interessamento di William Mackenzie per la sorte di Martin Freud, ma è un fatto che dopo pochi mesi l’austriaco risultava trasferito nel campo di Cogoleto, non lontano da Genova, dove le condizioni erano straordinariamente migliori. «I vincoli dello stato di prigionia sono molto minori, laggiù» scrisse Freud padre a Ferenczi alla fine di marzo 1919 «e l’unica cosa di cui [Martin] manca sono i soldi per pagarsi dei vestiti e la lavanderia». «Mio malgrado mi godo una precoce primavera in un quadro tutto sommato piacevole» affermò lo stesso Martin, che all’inizio del 1920 sarebbe infine tornato a casa. 

In una lettera a William Mackenzie del febbraio 1920 Sigmund Freud, dopo aver parlato di altre questioni relative alle vicende della psicoanalisi in Italia, aggiunse: «Il prigioniero di cui lei si è tanto gentilmente occupato, è ora un giovane sposo». Per chi conosce il tedesco, questa la frase esatta: «De Gefangene für den Sie so freundlich gesorgt haben, ist jetzt junger Ehemann».

 

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