È noto che gli studi sulle Nde si sono sviluppati, in ambito medico e psicologico, a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, sebbene anche prima di allora ci sia stato chi ha osservato e analizzato con il giusto occhio critico le “esperienze in prossimità della morte”. Tra i precursori in quest’ambito viene ricordato e apprezzato il geologo svizzero Albert Heim (1849-1937), che nel 1892 pubblicò un breve lavoro sull’argomento, consistente nell’analisi di una piccola raccolta di casi uno dei quali riguardante lui stesso.
Heim fu un personaggio di grandi qualità culturali e di notevole eclettismo, di cui andrebbero meglio esaminate le attività e le pubblicazioni, che spaziavano dalla geologia e l’alpinismo all’impegno sociale a favore delle donne, dalle campagne contro l’abuso di alcol e tabacco alla creazione ed educazione di una nuova razza di cani adatta al recupero dei dispersi, dall’osservazione delle conseguenze di cadute da grandi altezze alla promozione della “suggestione” (ipnosi) per trattare certe lesioni dermatologiche quali le verruche.
Nella pubblicazione del 1892 Heim sintetizzò nel modo seguente le esperienze riferite da alpinisti sopravvissuti dopo essere precipitati durante una scalata (riprendo il brano nella traduzione eseguita da Paola Giovetti dell’originale tedesco). «Non viene avvertito alcun dolore e si prova pochissima paura: ci si spaventa nettamente di più al cospetto di pericoli minori. Nessuna angoscia, nessuna disperazione, nessun dolore, ma tranquilla accettazione, profonda rassegnazione, sicurezza spirituale e rapidità di valutazione. L’attività mentale è enorme, cento volte più veloce e intensa del normale; non viene avvertita nessuna confusione e le eventualità di una via d’uscita vengono valutate in modo chiaro e oggettivo. Il tempo sembra dilatarsi. Si agisce con rapidità fulminea e le idee che vengono sono quelle giuste. In numerosi casi si ha una visione improvvisa di tutto il proprio passato. Infine chi precipita sente sovente bella musica e ha la sensazione di essere librato in uno splendido cielo azzurro con nuvolette rosa. Poi la coscienza si estingue senza alcuna sensazione di dolore.»
Rimasto confinato in un Bollettino di alpinismo svizzero, il lavoro di Heim ebbe pochissimi lettori al di fuori della ristretta cerchia degli abbonati e fu presentato negli anni (prima di una traduzione in inglese uscita nel 1972 su una rivista medica) soltanto nelle conferenze svolte dall’autore in alcune città svizzere, tedesche e francesi. In Italia a parlarne diffusamente fu un articolo comparso sul quotidiano La Stampa il 2 agosto del 1900, che passò però del tutto inosservato perché pochi giorni prima era morto il re Umberto I e per l’intera settimana i giornali dedicarono gran parte del loro spazio all’avvenimento e ai funerali solenni che si sarebbero tenuti il 6 agosto.
Inabili a sollecitare altre indagini sullo stesso tema, le osservazioni di Heim non furono forse del tutto prive di conseguenze, come ha fatto osservare lo psicologo californiano Timothy Green. Secondo quanto evidenziato dai biografi del geologo svizzero, quest’ultimo era uso illustrare nelle sue lezioni universitarie le “sensazioni” degli alpinisti sopravvissuti alle cadute: parole che, negli anni Novanta del xix secolo, ebbe modo di ascoltare anche Albert Einstein, che più volte inserì quei corsi come materie complementari all’interno del suo piano di studi ordinario incentrato sulla fisica. Il futuro padre della relatività, che fino a età avanzata avrebbe ricordato con piacere le lezioni di Heim, ebbe perciò quasi certamente occasione di sentir dire qualcosa su una speciale percezione del tempo («il tempo sembra dilatarsi») nel contesto di un moto accelerato determinato dalla gravità: elementi vicini ad alcuni dei concetti della teoria della relatività.
Ma aver seguito qualche lezione di Heim non fornisce alcuna prova che Einstein abbia prestato attenzione a quei discorsi e ne sia rimasto influenzato. Un’intervista rilasciata nel 1919 dal grande fisico al New York Times apporta comunque un piccolo elemento indiretto a favore di questa tesi. Nel riferire in che modo era arrivato a formulare la relatività generale, Einstein disse che a un certo momento si era trovato in difficoltà nella descrizione matematica di oggetti in moto reciproco, finché un giorno gli era accaduto di osservare, dal suo studio all’ultimo piano di una casa, un uomo che cadeva dal tetto del palazzo di fronte, fortunatamente senza gravi conseguenze. Ciò gli aveva fatto balzare alla mente il ruolo della gravità nel causare i movimenti; dopodiché per una serie di associazioni era riuscito a chiarirsi le idee sulla tesi che stava trattando. Tutto ciò sembra un altro richiamo ai concetti di caduta, di moto, di sospensione del tempo presi in considerazione da Heim nel suo studio su persone che – diremmo oggi – avevano raccontato la propria Nde.
Non potremo mai stabilire con sicurezza se Heim abbia avuto un (piccolo) ruolo nell’elaborazione della relatività. Sappiamo però che sulle esperienze in prossimità della morte il geologo dimostrò una notevole capacità di analisi. Non si sfugge al sospetto che se il suo lavoro fosse stato meglio conosciuto, e magari presto tradotto in altre lingue, la storia delle indagini sulle Nde avrebbe avuto un avvio più precoce, almeno tre quarti di secolo prima di quando nacque davvero.
Mi permetto di proporre (spero non a sproposito) un’esperienza vissuta personalmente in occasione di un incidente stradale nel quale sono stato coinvolto nel dicembre 2003 e a seguito della quale ho riportato fratture multiple agli arti inferiori e vari altri traumi minori. Questi sono i fatti. Stavo rientrando a casa dopo una mattinata di acquisti ed all’uscita di una galleria ( piovigginava e dunque la strada era piuttosto scivolosa) ho notato sulla corsia opposta una vettura che procedeva in senso contrario ad altissima velocità e che iniziava a sbandare. Ho tentato di accostarmi il più possibile al ciglio stradale, ma l’automobile dopo un paio di cambi repentini e imprevedibili di direzione mi ha centrato in pieno, fortunatamente colpendo il mio mezzo in corrispondenza del fanale anteriore sinistro, dove la carrozzeria, per la sua sagomatura, garantisce la massima resistenza. Ebbene, in seguito ho calcolato , anche per una perizia di parte, il tempo intercorso tra la mia percezione del pericolo e l’impatto: tale intervallo non deve essere stato superiore ai tre secondi e mezzo. Probabilmente, meno. Eppure, non avendo mai perso conoscenza e memoria di quanto successo, ricordo perfettamente di aver avuto la sensazione di un’azione vista al rallentatore, tanto che dopo aver tentato di portarmi quasi fuori dalla traiettoria di impatto, ho la certezza di aver avuto modo di considerare la mia situazione (trasportavo alcune cassettiere appena acquistate e ho pensato che sarebbero state danneggiate), ma anche le vicende che ne sarebbero inevitabilmente conseguite (dalle ansie dei miei famigliari, all’interruzione del traffico, alla presenza di vetture alle mie spalle, all’impossibilità nei giorni successivi di essere presente al lavoro). Da ultimo, sembra strano, immediatamente prima dell’impatto mi è balenata la certezza netta, limpida, inconfutabile, che non sarei deceduto (e non era scontato, considerando la dinamica). Un’ultima notazione di colore. Sono sempre molto ligio nell’uso delle cinture, assolutamente, ma quel giorno, stranamente, non le avevo utilizzate… Salvo essermene accorto ed averle allacciate all’ingresso di quella stessa galleria.
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Grazie di questa testimonianza personale, che conferma così molte altre storie analoghe ma conosciute solo di terza e quarta mano. Questo episodio mi ha riportato alla mente un infortunio automobilistico che ho avuto da giovane, poco dopo aver preso la patente. Dopo aver sbandato per la presenza di brecciolino su una strada tutta curve, la mia macchina è caduta in un terreno più in basso di circa 4-5 metri rotolando lateralmente e fermandosi infine appoggiata su una fiancata. Procedevo piuttosto lentamente e la caduta non deve essere durata più di 2-3 secondi: eppure in quel breve intervallo ho “calcolato” lucidamente, sulla base dei movimenti dell’auto, come spostarmi e appoggiarmi nell’abitacolo per evitare di battere la testa (il finestrino era aperto) o di farmi male. Ancor più sorprendente (ripensandoci dopo) è stato il fatto di essere riuscito a muovermi a gran velocità, tanto che non ho subito alcun danno dall’incidente: sono uscito da solo dall’automobile ferma, tirandomi su dal finestrino aperto. Ricordo bene, comunque, che durante le “evoluzioni” della vettura avvertivo uno scorrere lentissimo del tempo, quasi mi trovassi dentro un film proiettato al rallentatore.
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Recentemente, ho ascoltato in televisione un’intervista al pilota di Formula1 Mick Schumacher, coinvolto in un pauroso incidente durante le qualifiche di una Gran premio. Ebbene, ho colto ancora lo stesso concetto di cui si parlava, ossia della sensazione di un apparente rallentamento del tempo e di conseguenza della possibilità di effettuare ragionamenti complessi e di provare sensazioni di varia natura anche non strettamente legate alla situazione. In questo caso, va sottolineato, la velocità del mezzo (mi pare intorno ai 240 Km /ora) e l’esiguità della sede stradale non lasciano dubbi sull’intervallo di tempo davvero minimale nel quale si è realizzato l’evento (ho guardato il filmato sulla rete e ho valutato circa 0.8 secondi).
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Grazie di questa ulteriore conferma della sostanziale uniformità biologica degli umani. Se ne fossimo tutti davvero convinti, si eviterebbero dal pianeta molte circostanze sgradevoli…
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