Nel corso del 2020 il miliardario statunitense Robert Bigelow ha messo in palio circa un milione e mezzo di dollari per premiare i migliori testi appositamente scritti per rispondere a una domanda specifica: “Qual è la più forte dimostrazione disponibile della sopravvivenza della coscienza umana dopo la morte del corpo?” La partecipazione a un simile concorso non era libera a tutti, ma riservata solo a: chi poteva dimostrare di aver condotto ricerche sull’argomento da almeno 5 anni; docenti universitari o membri di accreditate società di parapsicologia; esponenti sacerdotali di una qualche Chiesa. Contrariamente a quanto lo stesso Bigelow si attendeva, i partecipanti sono stati numerosi (circa 200 selezionati tra oltre 2000 candidati) e la qualità dei testi inviati piuttosto alta, tanto che al termine i riconoscimenti in denaro sono aumentati di numero rispetto al preventivato, finendo per premiare 29 saggi per un esborso totale di quasi 1,8 milioni di dollari. Molti di questi lavori hanno discusso i dati scaturiti dalle ricerche sulle Nde, sui casi di “ricordi spontanei di una vita precedente”, sulle esperienze anomale negli ultimi momenti di vita, o hanno messo assieme indicazioni provenienti da ambiti diversi, quali la biologia, la fisica e la parapsicologia.
I testi sono stati giudicati isolatamente da sei “esperti” chiamati a quel compito – uno psichiatra, uno studioso di religioni, una statistica, un giornalista, un neurofisiologo, un fisico (e qualcuno sostiene che in realtà abbiano operato anche altri giudici “tenuti nascosti”, tra i quali almeno un sacerdote) – e quelli vincitori sono stati resi disponibili su un sito internet. L’obiettivo finale è però di trasformarli in volumi editorialmente ben curati e in formato cartaceo, da distribuire in 3-4000 copie alle comunità parrocchiali, alle università e ai centri di spiritualità, con l’intento di promuovere presso larghi strati di popolazione il concetto (o la convinzione) della sopravvivenza.
Al di là dell’entusiasmo iniziale acceso da somme tanto elevate, poco dopo la proclamazione dei vincitori si sono levate molte voci critiche sui risultati e sul senso stesso dell’iniziativa di Bigelow, adesso ritenuta un modo “ingenuo” di sostenere l’idea della sopravvivenza. A scanso di equivoci – per quel che sto per aggiungere – preciso che ritengo che ognuno abbia il diritto di fare dei suoi soldi quel che gli pare (se non nuoce ad altri, è ovvio), per cui non trovo accettabili né le invidie mascherate da considerazioni finto-ragionevoli («poteva dare quei soldi in beneficenza», «avrebbe potuto sostenere la lotta al Covid-19 nella sua nazione», «sarebbe stato meglio finanziare ricerche scientifiche o parapsicologiche più utili» e via dicendo), né le critiche acidule di chi è stato escluso («i testi premiati non sono i migliori», «certamente qualcuno avrà beneficiato di un trattamento di favore» e altro del genere).
Con lo stesso spirito, non riesco a condividere due valutazioni autorevoli date di recente all’impresa di Bigelow. La prima è la posizione critica espressa in un editoriale del Journal of Anomalistics dal suo direttore, Gerhard Mayer, secondo cui, per come si è svolto e concluso, il premio di Bigelow ha rivelato di non avere intenti “scientifici” ma solo finalità religiose. La seconda è un tentativo di assoggettare a un sistema “scientifico” di valutazione di validità l’insieme dei saggi premiati da Bigelow, tentativo effettuato da Tressoldi, Rock e Pederzoli che non solo è ingiustificato perché quel sistema (d’altronde di valore limitato) non può essere applicato a dati diversi da quelli per cui è stato studiato, cioè gli articoli accademici, ma anche perché ha portato a risultati paradossali, per esempio definendo tra i lavori “più attendibili” una storia di presunta reincarnazione che risulta essere in larga parte inventata.
Non ho ancora letto tutti i 28 saggi risultati vincenti (escludo quello non veritiero), e non so ancora se tornerò a parlarne qui; ma vorrei almeno proporre due “impressioni” su aspetti che mi sembrano significativi. La prima è che non c’è nessuna ampia convergenza, tra i differenti saggi, su ciò che può ritenersi una “prova solida” di sopravvivenza. Ogni autore esalta qualcosa e trascura tutto il resto, e pochi tentano una valutazione complessiva delle indicazioni uscite dalla ricerca parapsicologica e medianica più recente, senza – in apparenza – rendersi conto della debolezza intrinseca di un simile procedimento, perché la forza di una catena di dati non corrisponde alla somma delle forze dei singoli componenti, ma è uguale soltanto a quella dell’anello più debole. Se esistesse un’evidenza chiara di sopravvivenza, magari nascosta tra le pagine di una rivista di settore o un libro, dovremmo veder ricomparire spesso questa informazione nelle discussioni, o almeno nella bibliografia citata: invece, ciò non accade. Con la conseguenza che è inevitabile pensare che questa pretesa “dimostrazione”, relativa a un argomento qualunque, ancora manca.
La seconda constatazione è che da quasi tutte le trattazioni, salvo parzialmente un paio, sono assenti i dati conseguiti in passato da studiosi e ricercatori, come se da lì non sia arrivato nulla di significativo. Eppure proprio da quei dati molti avevano, al tempo, trovato la giustificazione per ritenere comprovata la sopravvivenza (o il mondo degli spiriti, il che è lo stesso). E qui l’unica conclusione sembra essere che ogni generazione su questo argomento riparte da zero e considera di nessun valore quel che hanno fatto gli studiosi precedenti. Il che, volenti o nolenti, conferisce all’attività parapsicologica la fisionomia di una “tela di Penelope” della quale è al momento difficile liberarsi.
Aggiungo infine una mia valutazione globale dell’iniziativa di Bigelow, che trovo abbastanza inutile per gli scopi che si è esplicitamente prefissa, per almeno tre motivi. 1. Una convinzione (psicologica, religiosa o filosofica) non si impone né si afferma attraverso qualche libro, ma con processi assai più complessi, lunghi e multifattoriali. 2. Non vedo la necessità di un’operazione di questo genere per promuovere, come fosse una “novità”, una fede/credenza/convinzione (“la coscienza individuale sopravvive alla morte”) che già è presente e condivisa da quasi tutte le religioni del mondo e dai rispettivi aderenti: cioè miliardi di persone. 3. Non capisco il senso o la necessità di diffondere e rafforzare la convinzione che alla morte si sopravvive, perché se questo è vero, è vero per tutti: sia per chi ci crede, che per chi non ci crede. Mentre invece mi sembra evidente quanto tutto ciò sia rischioso: è sotto gli occhi di tutti che nutrire quella fede non rende automaticamente le persone migliori, ma spesso le peggiora.
Death is the end of consciousness – or it is not.
If it is the end, there is nothing more to said.
If it is not the end, I hope it is interesting – or that there will be an opportunity to make it so.
John Rudkin
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Certain. However I would say that for each of us things will go the way they want to go, regardless of what each of us believes or don’t.
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Trad di quanto sopra:
– La morte è la fine della coscienza, o non lo è. Se è la fine, non c’è altro da dire. Se non è la fine, spero che sia interessante o che ci sarà l’opportunità di renderla interessante. John Rudkin
– Certo. Tuttavia direi che per ognuno di noi le cose andranno come vorranno andare, indipendentemente da ciò che ognuno di noi crede o non crede. MB
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