Chi ha avuto modo conoscere e magari approfondire i temi parapsicologici nel corso del Novecento ricorda senz’altro come An Adventure, pubblicato ai primi del secolo nel Regno Unito, sia stato a lungo considerato uno dei testi classici della materia, di particolare rilevanza in quanto apparentemente indicativo di un insolito rapporto tra la psiche umana e “le pieghe” del tempo. Scritto da due “signorine inglesi”, consisteva nel resoconto di alcune esperienze delle autrici accadute mentre stavano attraversando le aree verdi circostanti la reggia di Versailles in direzione del castello del Petit Trianon. Era la prima volta che le due turiste compivano quella visita, il che spiega la loro incertezza nel muoversi tra i luoghi aggirandosi confusamente tra sentieri, boschetti e giardini alla ricerca di qualcuno cui chiedere indicazioni. Ma ciò che segnò drasticamente la giornata fu il succedersi di varie circostanze, ciascuna banale in sé, che nell’insieme parvero trasportarle al di fuori della realtà, convincendole infine di aver vissuto uno strano caso.
Dal punto di vista dei “riscontri” oggettivi si trattò di incontri e notazioni di elementi generici dell’ambiente. «Davanti a noi c’erano tre strade» avrebbe per esempio riferito una delle due signorine. «In quella di mezzo, un po’ più avanti rispetto a noi, vedemmo due uomini… In seguito ci siamo riferite a loro come a dei giardinieri, perché ricordavamo di d’aver visto, nelle vicinanze, una specie di carriola e la punta di una vanga, ma in realtà erano compuntissimi ufficiali dalle lunghe giacche grigio-verdi e piccoli cappelli a tricorno. Ci dissero di andar dritte» e così via. Oppure: «Davanti a noi c’era un bosco, e nel bosco, ombreggiato dalle fronde degli alberi, c’era un leggero chiosco da giardino, tondo come quelli dove sta la banda, e vicino sedeva un uomo» con “un volto segnato dal vaiolo”.
Niente di eccezionale, come si vede, che ebbe però una coloritura particolare per le sensazioni provate in quei frangenti, del genere di: «… dal momento in cui avevamo lasciato la stradina ero stata sopraffatta da una tremenda depressione, che nonostante i miei tentativi di dissiparla non faceva che aumentare. Non c’era, in apparenza, nessun motivo per sentirsi così… D’un tratto tutto divenne innaturale e di conseguenza sgradevole: perfino gli alberi dietro l’edificio parevano divenuti piatti e senza vita, come un bosco intessuto in un arazzo. Non c’erano effetti di luce e ombra, né vento a muovere gli alberi. Ogni cosa era, profondamente, immobile.»
Soltanto in seguito, ripensando all’accaduto, le due si resero conto che sotto il velo di normalità di quella gita doveva essersi prodotto qualcosa di strano, presto riconfermato da un tentativo di verifica dei dettagli osservati: le divise degli uomini accanto alla carriola, ad esempio, non erano da “giardinieri” ma da ufficiali francesi del Settecento; non c’era in quei giardini alcun chiosco; nessun uomo abbigliato nel modo in cui l’avevano visto e con il volto segnato dal vaiolo avrebbe potuto trovarsi vicino a quell’inesistente chiosco; e così via. Qualcosa, dunque, aveva dovuto determinare la lunga serie di incongruenze e di impressioni soggettive. Già, ma cosa?
Le due donne escogitarono, per questa domanda, una risposta non meno strana delle loro sensazioni: quel che avevano visto erano scene e personaggi di un’altra epoca, dovute alla percezione di immagini arrivate dal passato, o a un loro “precipitare” indietro nel tempo, risalendo di oltre un secolo. An Adventure raccontava tutto ciò, dal momento della decisione di andare al Petit Trianon fino alle conclusioni raggiunte dalle autrici, suscitando per almeno 50 anni numerose discussioni sulla realtà della vicenda narrata, sui meccanismi di “avvolgimento” del tempo attorno alla psiche umana (o, quanto meno, a quella delle due signorine), sui “poteri della mente” e quant’altro. Né sono bastate analisi dettagliate, condotte anche da studiosi di indiscussa autorevolezza, a smentire la tesi della presunta “retrocognizione” e a metter fine alle fantasticherie.
Di tutto ciò, in Italia era giunta appena qualche eco sbiadita, dovuta alla mancata traduzione del volume, alle superficiali conoscenze dei luoghi e della storia francese, alla difficoltà di capire davvero quelle teorie sul tempo. Tutti ostacoli che sono ormai venuti meno, grazie alla fluida e precisa traduzione del testo effettuata da Fabio Camilletti, che alla versione italiana (cui è stato dato l’intrigante titolo di Il sogno della regina in rosso [ABEditore, 2021, € 20,00]) ha anteposto un’accurata introduzione relativa non solo alla vicenda delle due signorine inglesi, C.A. Moberly ed E. Jourdain, ma alla storia stessa del libro, con le sue numerose edizioni, le aggiunte e le modifiche introdotte di volta in volta, le verifiche tentate sui suoi elementi dai “teorici” che hanno preso sul serio il racconto, e così via. Ne risulta, dunque, un testo che può essere letto, e magari riletto, secondo varie prospettive, da quella letteraria a quella storica, dalla bibliografica alla parapsicologica, secondo le predilezioni dei lettori. Voglio solo aggiungere che è stato per me un piacere leggere finalmente in una versione agile e fedele all’originale un testo cui mi sono dedicato molto tempo fa, senza probabilmente riuscire ad apprezzarne tutte le implicazioni tanto quanto mi è stato possibile fare ora.