La casa “degli spiriti” a via del Corso, a Roma, era in realtà un grande appartamento di nove stanze più cucina, oltre a un terrazzino aggettante, al primo piano del caseggiato accanto all’oreficeria dei Bellezza, che era una delle più rinomate della strada. Era stata abitata fino agli inizi di quell’anno 1876 da una famiglia composta di madre, padre e figlia adolescente; famiglia letteralmente fuggita a causa degli strani fenomeni che continuavano ad accadere in quegli ambienti. Nelle stanze, ogni tanto i mobili venivano ritrovati scambiati di posto; i lumi accesi verso sera, poco dopo si spegnevano di colpo; porte e finestre si aprivano da sole, e i campanelli interni all’appartamento suonavano in continuazione. Di notte, si udivano rumori di catene, e colpi violenti alle braccia e alla testa svegliavano le persone addormentate. La ragazza, che sembrava accentrare attorno a sé molti di quei disturbi, aveva detto di aver sognato una notte un ex-dragone pontificio con un elmo in testa che la chiamava con un cenno della mano, e il giorno successivo scendendo in cantina con un esorcista (?) era rimasta “incollata” al pavimento senza essere in grado di sollevare nemmeno un piede dal suolo. Strani disturbi davvero, che uniti all’inevitabile spavento le avevano chiuso lo stomaco, per cui mangiava poco ed era molto deperita. Alla fine, non potendone più di tutto ciò, quegli inquilini avevano deciso di abbandonare la casa.
Nei locali ormai tornati disponibili si era allora stabilita la famiglia di un impiegato ministeriale originario dell’Alta Italia, che però aveva subìto la stessa sorte di chi l’aveva preceduta. Per cui aveva preso l’identica decisione di lasciare l’appartamento dopo poche settimane per tornarsene da dove era venuta, anche a costo di perdere la pigione già versata al proprietario. Il quale aveva fatto il bel gesto di restituire una parte di quei soldi e di dichiarare di voler affittare a un prezzo inferiore. Speranza vana, in quanto le notizie dell’accaduto avevano già preso a circolare e nessuno si era fatto avanti, finché all’inizio di aprile un pittore, vantandosi di essere più “moderno” e razionale degli altri, aveva fatto il suo ingresso trionfale nella casa, irridendo alle superstizioni dei precedenti occupanti. Tanta sicumera era destinata a durare solo pochi giorni: anche lui, dopo aver ritrovato una mattina i suoi quadri in disordine e semidistrutti, e i colori a olio tutti rimescolati tra loro, se n’era scappato a gambe levate.
Verso la metà di quel mese la storia era finita sui giornali. La Libertà, uno dei quotidiani più letti nella capitale fin dall’epoca della presa di Roma, il 13 aprile aveva riferito in poche righe tutta la faccenda, parlando per la prima volta di male azioni di “spiriti dispettosi” e spingendo così una folla di ragazzini e di sfaccendati di ogni genere ad «attrupparsi» sotto le finestre di quella casa, col naso in su nella speranza di vedere degli “spiriti” uscire dal balcone o camminare sui tetti. La vicenda era stata ripresa da altri fogli cittadini, quali il Fanfulla e L’Osservatore Romano, che avevano accennato anche a un intervento degli “sbirri”, i quali avrebbero arrestato – così si sosteneva – due persone ritenute responsabili di quella baraonda. Il 15 del mese il laico Popolo Romano aveva mostrato un atteggiamento molto critico di fronte a quei fatti, notando che più che alle guardie era sufficiente affidarsi al «senso comune» per capire che fenomeni di quel genere erano del tutto inesistenti e che l’episodio era una montatura dall’inizio alla fine. Punto sul vivo, il 22 aprile sulla faccenda era tornato L’Osservatore Romano ospitando un lungo articolo in prima pagina per esporre quella che poteva dirsi la posizione ufficiale della Chiesa: i fenomeni possono (non sempre lo sono) esser veri e in tal caso sono causati non da spiriti bensì da demoni.
A maggio sugli Annali dello Spiritismo in Italia – la voce più ascoltata dello spiritismo nazionale – uscì il giudizio definitivo sulla casa di via del Corso, in forma di commento di Felice Scifoni agli avvenimenti descritti da La Libertà. Scifoni, capo dello spiritismo romano, era ritenuto una voce “morale” autorevolissima. Letterato di valore (amico, tra l’altro, di G.G. Belli), carbonaro e patriota mazziniano, nel 1830-31 aveva animato da protagonista i moti di Romagna contro il Governo Vaticano. Esiliato a Firenze, nel 1846 era stato amnistiato da Pio IX ed era rientrato a Roma… giusto in tempo per essere eletto deputato, tre anni dopo, all’Assemblea Costituente della Repubblica Romana, esperienza durata soltanto pochi mesi. Rimandato in esilio in Francia, si era fatto notare per la propaganda svolta contro Napoleone III, per cui era stato cacciato anche da lì e rispedito sul suolo italiano. Dopo un soggiorno a Torino, era tornato a Firenze dove, senza rinnegare le sue idee politiche e filosofiche, si era convertito allo spiritismo e aveva fondato un Circolo spiritico assieme ad altri reduci della “gloriosa” Repubblica Romana. Alla presa di Roma, nel 1870, si era nuovamente trasferito nella città natia, dove aveva ricominciato con immutata foga a promuovere sia le idee liberali e repubblicane, sia le attività spiritiche.
Ebbene, a proposito dell’appartamento in via del Corso Scifoni specificava che, pur convinto spiritista, era decisamente scettico verso tutti quei racconti di spiriti indaffarati nelle case (di diavoli, che puzzavano troppo di religione vaticana, neanche a parlarne). Senza esitazione, qualificava con il simpatico termine di «pappolata» (mazzetto di frottole) le cronache giornalistiche. A suo parere, gli spiriti con quei fenomeni non c’entravano niente: e per ben due motivi. Il primo era che un paio di bravi medium, da lui spediti in ricognizione, nonostante ogni sforzo non erano riusciti a evocare in quelle stanze nessun’anima di trapassato. Il secondo era che «tra noi spiritisti sappiamo che tutto quanto è avvenuto non prova nulla, né pro né contro l’esistenza degli spiriti. Sappiamo che se tra gli abitatori d’un luogo invaso non vi è chi non abbia una medianità appropriata a tal genere di fenomeni, questi non si producono, e ciò spiega chiaramente il perché inquilini anteriori nulla hanno mai sentito, e ciò spiegherebbe se questi ora sopravvenuti sentissero di nuovo o nulla sentissero: sarebbe affare di medianità o di non medianità» e non di spiriti, come «gl’ignoranti… vogliono giudicare secondo gli umori e le convinzioni. Tutti vogliono farsi dottori di ciò che non capiscono e rifuggono dallo studiare».
Negati così, senza possibilità di appello, proprio da chi avrebbe più potuto riconoscerli e gloriarli, in quei giorni anche gli spiriti lasciarono per sempre via del Corso e non dettero più notizia di sé. Forse cercarono di raggiungere chi, prima, era scappato da loro, o forse scelsero di andarsene altrove. Ma poiché di questo non possiamo dir nulla, come disse il saggio: di tutto ciò conviene tacere.
(Prima di chiudere questo post, voglio esprimere la mia gratitudine a Stefano Licocci, che mi ha cortesemente riprodotto dall’Archivio dell’Osservatore Romano l’articolo citato nel testo.)
Sarà pur stato un convinto spiritista ma, a giudicare dalla narrazione di come è finito il tutto, si potrebbe tranquillamente affermare:
Scifoni : spiritismo = cicap : Parapsicologia
Negare! Negare! E sempre negare! Alla fine la gente si convincerà che non esiste (e mai è esistito) nulla di riconducibile al paranormale. E il giochetto è fatto.
Non c’è che dire, un articolo decisamente autobiografico
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