Un articolo di un tal Felice Rosina, giornalista esperto di politica e di vari argomenti culturali, riportava nel febbraio del 1910 su La Stampa i dettagli di un’“autobiografia” di Eusapia Palladino uscita in quei giorni sulla rivista americana Cosmopolitan Magazine. Architettato quasi certamente da Hereward Carrington (che stava gestendo la trasferta in America della medium, peraltro analfabeta), quel “ritratto” in origine serviva a rialzare presso l’opinione pubblica le quotazioni di Eusapia Palladino, crollate a fine gennaio dopo la comparsa sul Metropolitan Magazine di un articolo che le imputava l’uso esclusivo di trucchi per realizzare i suoi fenomeni nelle sedute. Come si può facilmente constatare, l’articolo comparso Oltreoceano – qui dettagliatamente ripreso da Rosina – conteneva numerosi errori e inesattezze, il che lo rendono un documento del tutto inutile quale fonte di informazioni biografiche, ma era funzionale a dare della donna un’immagine tale da suscitare commozione e simpatia nei suoi confronti. Dell’articolo originale si è occupato nel 2011 Carlos Alvarado in un saggio presentato sul Journal of Scientific Exploration. Qui c’è il testo integrale della pubblicazione italiana.

ColorataEusapia Palladino ha scritto. Per più di venti anni giornalisti ed editori di tutte le parti del mondo hanno tentato di avere da lei il racconto della sua vita, nella parte più interessante, il ricordo dei primi anni, nella sua giovinezza sperduta, nell’irrequieto agitarsi della tumultuosa vita napoletana. Da lei si voleva, dalla sua penna, il racconto fedele del passato. Ed ha scritto, ha confessato, finalmente. Una grande Rivista americana ha saputo vincere la volontà di quella donna, che hanno chiamato straordinaria, e la medium famosa s’è fatta autobiografa.

È noto: il primo a farla conoscere fu il professor Chiaia, di Napoli, il quale pubblicò nel 1888 un rapporto sulla giovane medium. È pure noto come essa improvvisamente raggiunse le più alte vette della celebrità: su tutto questo Eusapia non indugia. Lo sanno tutti, certo ha pensato: passiamo oltre, e parliamo d’altro.

– Fin da bambina seppi il dolore – incomincia malinconicamente la sua biografia. La sua stessa nascita portò sventura: la madre morì nel darle la luce. Non le rimase che il padre: non un parente che potesse allevarla. E certi babbi, lo si sa, non hanno molta pazienza, coi piccini: sono tanto noiosi, e fanno tante smorfie! E poi, a quante altre cose hanno da pensare! Il padre di Eusapia fece dunque come fanno tanti: commise la sua bambina ad una famiglia amica, che teneva una fattoria presso il suo villaggio.

Aveva un anno – questa glie l’hanno raccontata poi – quando fece una grave caduta, e si ruppe la testa: sopra quella ferita i capelli sono sempre rimasti bianchi. La rottura di testa si ignora se abbia molto influito sul sistema cerebrale della futura donna straordinaria; dicono tuttavia, ed ella candidamente lo confessa, che quando si trova nel sonno medianico una corrente d’aria esce da quella ferita, e questo fatto si connette con quanto accade durante le sedute.

Non aveva ancora compiuto dicci anni, quando il padre le fu ucciso dai briganti. Eusapia coglie questa occasione per lagnarsi un poco dell’abbandono nel quale l’ebbe a lasciare il padre: si ricorda ancora di qualche piccolo regaluccio che a volte le mandava. Poca cosa al paragone di quanto ella desiderava. Ed anche le persone che l’ospitavano, non si curavano molto di lei. «Non ho mai conosciuto amore, — scrive. — e pure ero molto sensibile alla triste freddezza che esiste sempre quando l’amore è assente».

Un uomo soltanto, un amico di suo padre, conosceva l’infelicità della fanciulla. La prese con sé a Napoli, e la collocò presso due ricche persone, marito e moglie, che, non avendo figli, desideravano adottare una ragazza. Ma invano: Eusapia non poteva vivere in quella casa: il suo carattere indomito, violento, selvaggio, non poteva accordarsi con le abitudini borghesi di quella famiglia. «Ora conosco – ammette la Palladino – che erano brave persone, e che sarebbe stato bone per me se avessi vissuto con loro, in quell’ambiente pacifico. Ma non potevo. Un giorno, quando rifiutai di prendere la lezione di piano, la madrigna mi disse che se non le avessi obbedito sarebbe stata costretta a mandarmi via. Aggiunse che avrebbe detto all’amico di mio padre di venirmi a prendere».

Ella non attese più oltre. Tremante d’ira, corse nella sua stanza, fece un piccolo fardello delle sue cose, e scese nella strada. Si trovò sola, nella grande città: ed un istante di sconforto s’impossessò di quella povera, giovane creatura, vittima del proprio carattere, forse anche di forze misteriose che l’allontanavano dalla pace della casa. Fu un triste vagabondaggio per le chiassose vie di Napoli: a tutti domandava dell’amico di suo padre, nessuno poteva darle un’indicazione precisa. La guardavano, con un senso di curiosità misto a compassione, a diffidenza, anche: quando una buona donna, la più pietosa, ascoltò attentamente le sue querele, e la preso con sé, accompagnandola nella propria casa. [Il testo continua dopo la didascalia della foto.]

Eusapia Palladino in America 1910

Foto di Eusapia Palladino scattata durante il suo soggiorno negli Stati Uniti, tra la fine del 1909 e i primi mesi del 1910.

Nella nuova famiglia Eusapia non trovò certamente la felicità: aveva inteso, dai discorsi dei vicini, che intendevano mandarla in un convento. Questo non poteva avvenire. Anche ora ella riconosce che il suo carattere era insofferente di governo: non può, e non ha mai potuto obbedire a leggi fisse. La sua volontà, solamente, la guida, anche oggi: e questo le basta.

Nell’attesa di andare al convento, i suoi nuovi amici la facevano lavorare in cucina. Lavorava molto, con una rapidità furiosa: non aveva pazienza; non poteva restare ferma un solo minuto. Eusapia insiste su questi particolari: era una giovinetta, allora, quindicenne, e tutta quella irrequietezza era il primo segno della sua nuova professione. La notte sognava strani sogni, di serpenti, di misteriose forme umane: gli amici le raccontavano cose cui non poteva credere. Nel sonno gridava? Ed era forse vero? Perché? Non sapeva farsene una ragione: ma la ragione glie la diede un prete, che un bel giorno capitò in quella casa, impartì la sua santa benedizione, e, cavando due prese di tabacco dall’unta tabacchiera, pronunciò la sentenza infallibile – la medicina miracolosa –: il convento.

La ragazza non ne volle sapere: quando, un giorno, accadde un fatto che doveva influire su tutto il suo avvenire. Nella stanza vicino alla sua, quasi tutte le sere si riunivano alcuni amici, in cordiale compagnia. Dalla cucina, dove puliva le casseruole, udiva parlare e ridere forte. Forse furono quelle voci di gioia che le inspirarono il desiderio di abbattere il giogo: perché doveva stare chiusa, prigioniera in quella casa, quando tutt’all’intorno respirava di libertà, di vita? Voleva fuggire, volare quasi attraverso lo spazio, tendere a lontani, strani paesi che un giorno aveva sognato, dove pensava gli uomini a lei eguali.

«Ad un tratto il mio noma risonò: – Eusapia! Eusapia! – Accorsi alla chiamata, pensando avessero bisogno che io portassi loro qualche cosa: – Pulisciti le mani, levati il grembiale, pettinati i capelli, e poi vieni qui –: mi dissero. Obbedii subito. Se ne stavano seduti attorno un piccolo tavolo, sul quale poggiavano le mani, e mi accorsi che le loro dita si toccavano. Due di essi vennero alla mia volta, e mi dissero di fare quanto facevano essi stessi. – È una così strana ragazza, – disse la mia padrona ad un signore; – forse può aiutarci. Vogliamo provare. – Le lampade erano abbassate, e noi stavamo in silenzio. Un signore batteva sul tavolo con le mani. L’altra parte del tavolo si alzava, e poi ricadeva. Non era nulla. Egli provò diverse volte: ma sempre il tavolo ricadeva. Io cominciai a provare le vertigini, ed il capo mi ronzava fortemente. Le mie braccia e tutto il mio corpo sembravano irrigidirsi e tremare, come un’irrompente forza spingesse per liberarsi. Era quasi un dolore, da principio. Ma venne il sollievo. Respiravo facilmente e guardavo gli altri che si orano alzati e parlavano ansiosamente. Un signore diceva: – È sorprendente; è un miracolo!

«Anch’io ero meravigliata. Non potevo credere che io, Eusapia, la servetta, avessi fatto cose che quei signori chiamavano miracoli. E mi raccontarono che le quattro gambe del tavolo si erano sollevate, che alcuni libri, non toccati da nessuno, si erano mossi dal luogo dove erano posti, che un bicchiere era balzato in aria. Essi avevano bisogno di me per ripetere l’esperimento, ma ero stanca. Allora provai la vera felicità. Nella confusione dell’eccitamento dei miei compagni, io ero la più calma. Quando andai a dormire non tremavo più, e quella notte non feci strani sogni».

Fu questo il principio della sua fama: il giorno seguente molti andarono ad osservare il caso meraviglioso. I suoi padroni non la facevano più lavorare: ogni sera doveva sedere nella solita stanza, davanti allo stesso tavolo, mentre gli amici la circondavano, l’avvicinavano, e parlavano di cose che non comprendeva. Alla fine delle sedute le dicevano che il tavolo si era alzato e che gli oggetti erano volati in aria. Non sapeva perché, e non se ne curava. Solamente sapeva che non lavorava più in cucina, e che dopo quelle sedute provava un sentimento di calma e di sollievo.

Ma a poco a poco l’ambizione cominciò a tormentarla. Ogni notte, nel silenzio della sua cameretta, nella vecchia casa napoletana, ella sognava la sua indipendenza: voleva andare via, lontano da coloro che continuamente la comandavano. Una sera erano presenti alla seduta alcuni invitati che ella non conosceva, e fecero dei nuovi esperimenti. Uno di essi, anzi, la tenne ferma per le mani e per le gambe. Quando venne l’ora di andare a dormire, un signore l’avvicinò, e le diede un bel gruzzolo di monete d’oro: un migliaio di lire, una vera fortuna! Quel signore era Aksakof, console di Russia.

Poco dopo andò a trovarla anche una signora inglese, sposata ad un napoletano, la quale credeva negli spiriti. Un mattino giunse a casa sua e le raccontò un fatto meraviglioso. Disse che un messaggio era venuto a lei da uno spirito, certo John King, il quale desiderava incarnarsi nel corpo di una medium chiamata Eusapia. Era la prima volta che udiva parlare di John King: ma da quel giorno non l’ha più lasciata.

Il suo aiuto le fu sempre confortevole. Spesso egli le parla e la consiglia. La chiama sua figlia: è il suo spirito che la guida. Quando lo chiama, dicendo: – Vieni, padre mio, vieni, – egli non manca mai. Nessun altro spirito le ha mai parlato: Aksakof li ha tutti allontanati da lei.

Dopo la sua visita in Napoli, tutti la chiamavano perché tenesse delle sedute. Scienziati e giornalisti incominciarono a giungere da lontani paesi. Ma era stanca delle sedute. In quel torno di tempo prese marito: sperava che nella nuova condizione avrebbe potuto condurre una vita di famiglia. Le fu impossibile, perché tutti cercavano di conoscerla. Professori andarono fino da Parigi a trovarla. Andò anche Lombroso. Da principio non lo accolse bene, perché egli non credeva. La sorvegliava sospettosamente, le faceva numerose domande, e nelle prime sedute anche la legava con corde. Questo lo spiaceva molto, ma egli era molto gentile o cortese, e finì per amarlo: «Lombroso, il quale è morto, ed ora sa molte cose che doveva imparare».

La vita di famiglia non la poteva possedere. Non aveva il tempo di attendere agli affari di casa e di pensare al pranzo che doveva preparare al marito. Povero marino, così infelice per aver dato il suo nome ad una donna troppo celebre! E molti professori la richiedevano dell’opera sua, operando su di lei ogni sorta di esperimenti. Talvolta avevano una macchina per pesarla durante il sonno ipnotico, e le dicevano che sembrava perdere alcuni pesi, che poi subito riacquistava. I professori accomodavano ogni cosa a loro piacere: ora nella stanza volevano l’oscurità, ora la luce. Ella sapeva quali condizioni fossero favorevoli per raggiungere i migliori risultati, e d’altro non si curava. Pregava Dio che lo fosse favorevole, e scongiurava suo padre, John King, di essere sempre con lei.

La prima parte della sua vita, la parte più intima era finita. Andò a Milano, a Roma, a Parigi, a Pietroburgo, e finalmente in America. La sua gloria è nota: l’eco dei suoi trionfi, e dei suoi dolori, risuona ancora in tutta Europa. E la Palladino taglia corto alla sua biografia; ma non manca di lamentarsi di una parte dell’umanità, quella che più l’ha disturbata e bistrattata: i giornalisti. Che cosa le hanno fatto queste brave persone? Nulla, o almeno poco: increduli, hanno cercato di scrutare ogni suo pensiero, ogni suo movimento: non l’hanno lasciata in pace. «Non mi trovo bene fra loro, perché cercano di penetrare l’anima mia. Ho bisogno di attenzione, di concentrazione. Questo ho saputo dagli scienziati europei. Fra loro, più che fra gli altri, io mi trovo bene. Preferisco gli uomini alle donne; non faccio però questiono di sesso o di paese, ma di intelligenza. Non ho paura di chi dubita: sono abituata a ciò. So, quando entrano nella mia stanza, quali sono i dubitosi. Cerco di convincerli, e per questo domando loro di prendermi mani e gambe, di guardare dovunque, di fare qualunque cosa li possa soddisfare. Tuttavia i risultati sono migliori quando ho della simpatia, e mi sento molto meno stanca alla fine. Sono uno strumento, sul quale si suona, come su un pianoforte».

Graziosa, l’immagine: ma al contrario del pianoforte che si suona a piena luce, Eusapia desidera essere suonata al buio. Il sonno ipnotico nell’oscurità, essa dichiara, porta i migliori risultati. Tuttavia agisco anche alla luce: anzi negli esperimenti… illuminati ella conosce quando è affaticata. Le capitò una volta a Napoli di sentirsi stanca, e disse ai compagni di interrompere l’esperimento. Ma essi non l’ascoltarono, neppure John King. Le influenzo che la spingevano a continuare erano molto forti, ma aveva la gola affocata. Alcuni piatti erano venuti a cadere sul tavolo. Un momento dopo cadde una bottiglia, ma non si posò sulla tavola. Mosse attraverso lo spazio, e venne alle sue labbra. Bevette, e fu molto rinfrescata. Fu sicuramente il papà gentile, John King, il quale aveva pensato di porgere un refrigerio alla assetata figliola buona.

Ma, tutte queste esperienze hanno — e lo si ricorda — fatto pensare a mistificazioni. La Palladino protesta fieramente contro tali insinuazioni: «Dicono che ho un aiuto umano, che mi chiudo in un impenetrabile mistero, che uso degli uncini, delle corde! Che adopero il gabinetto por nascondere i miei trucchi, che non voglio la luce, perché nell’oscurità posso preparare i miei tranelli. Infamie!».

Ecco: infamie, veramente. Eusapia combatte ad una ad una tutte queste accuse. Non sa spiegare nulla; è qualche cosa di superiore, che ella non riesce ad interpretare. «Forse un giorno sapremo tutto. Solamente Dio ed il suo popolo (quale?) sa, ora; o forse… il diavolo».

E poiché ora né Dio né il Diavolo possono rassicurarci, riportiamoci alle dichiarazioni dei mortali. La Palladino trova la sua giustificazione pronta, irrefutabile: gli scienziati hanno cercato ogni mezzo per sorprenderla nelle sue… funzioni spiritiche, ed hanno infine dovuto proclamare la legittimità dei suoi esperimenti. Ma Eusapia non ha pensato che gli scienziati portano gli occhiali!

Felice Rosina